Mau MacFerrin
I treni per Oranienburg sono bianchi e blu

Allora hai detto linea esseuno da Potsdamer Platz, direzione Oranienburg. Sì,
treni bianchi e blu, va bene. Ma sei sicuro di non venire? Io glielo devo a
Georg, e comunque voglio vedere dove lo hanno tenuto per cinque anni,
prima di mandarlo a morire a Dachau. Sai, Dachau era un posto incantevole,
prima che ci costruissero il campo. Ho poi scoperto che esistono altre località
nei dintorni di Monaco, con il nome che finisce in ­au. Ho una bella veduta di
Murnau, di Fritz Osswald, a casa. Comunque non vieni, ti fa impressione... io
boh! lo scoprirò presto.
Potsdamer Platz da Charlottenburg a piedi. Ma sì, che ci vuole?
Attraverso il Tiergarten, passo sotto la Siegessäule – ho visto una rivista gay
con quel nome al Tacheles l'altra sera, chissà perché chiamarla “Colonna della
Vittoria”, bah! – taglio per il parco... no, finisce che poi mi perdo. Allora vado
dritto fino alla Porta di Brandeburgo e la piazza è quasi subito lì, verso destra.
Treni bianchi e blu, esseuno... S­Bahn, ferrovia veloce urbana. Fantastici, i
trasporti pubblici a Berlino. Treni in superficie, treni sottoterra, stazioni dove i
primi si incrociano con i secondi, e poi tram autobus e piste ciclabili, cavolo!
L'altra sera un tedesco urlava come un matto perché una tipa camminava sulla
pista ciclabile. Sarà stata una turista, aveva tratti orientali. I tedeschi, quando
urlano, fanno venire la pelle d'oca.
Allora S1 fino a Oranienburg. Mi siedo accanto a una signora anziana, mi
sorride per cortesia. Glielo chiedo, oso? Come si dice “direzione”? Richtung,
vero. Mi schiarisco la voce e guardo la signora, chiedendole nel mio tedesco
sgangherato quale direzione dovrò seguire da Oranienburg per il campo. Ho
studiato tedesco quattro anni e questo è il risultato: io che sudo per chiedere
un'indicazione stradale. L'importante è capirsi, dài. Anzi, capirsi è il massimo
risultato che possa ottenere, con questo vocabolario limitato.
Vabbe', diciamo anche che non mi capita mai di parlarlo, il tedesco, sennò... due anni fa, con
Luci, parlavo solo in inglese e francese, poi il dialogo si è chiuso e allora...
comunque son qui, è il posto giusto, questo è sicuramente il muro di cinta.
Ma davvero questi mattoni potevano nascondere la verità ai cittadini che
abitavano di fronte, dall'altra parte della strada? Queste abitazioni sono molto
vecchie, c'erano già nel Trentotto. Avranno avuto paura di sapere, di reagire,
di finirci anche loro dietro a quel muro.
Arbeit macht frei. Anche qui. Schifosi. Il campo di Sachsenhausen è fra i
primi e più grandi sul territorio tedesco. Hanno ricostruito le baracche,
cammino fra i letti a castello sul pavimento di tavole. Legno dappertutto, il cui
odore si mescola con quello di paglia. Non è sgradevole, ma all'epoca doveva
esserci una puzza bestiale. Sarebbe giusto riprodurla. Quelli sono lavatoi per
piedi. I detenuti provavano le calzature della Wehrmacht nel piazzale, girando
in tondo per ore ogni giorno. Questi lavatoi dovevano essere la loro terra
promessa. Se una guardia era girata male, capitava che affogasse un
prigioniero nel lavatoio. Crepare così per aver provato un paio di scarpe.
Schifosi.
Centomila morti sotto i nazisti, diecimila sotto i sovietici. Un posto dove
non si poteva fare molto altro che morire. Oggi no, oggi non si muore. Si
visita. Io da solo, libero nel campo di sterminio, mentre tanti altri si spostano
in comitiva. Vado dove non c'è nessuno, preferisco. Nell'infermeria, c'era un
medico che collezionava tatuaggi. Mi sono appena fatto il mio, questo non lo
avrai. Non c'era mica solo Mengele, anzi: qui, a Sachsenhausen, iniettavano
liquidi di ogni genere nei corpi vivi di ebrei, comunisti, anarchici, zingari e
testimoni di Geova, per prendere nota della reazione dei loro fisici. Tutto
molto accurato e preciso, scientifico. Liberi di realizzare i loro incubi di gloria
più neri, quei medici, con tante cavie a disposizione. Sono convinto che
ricomincerebbero anche adesso, se fosse possibile. Forse non hanno mai
smesso.

Eccola lì, la prigione delle SS, quelle due maniche di celle lussuose nel
bel mezzo del campo. Hitler ospitava qui i suoi nemici preferiti, i prigionieri
speciali del Führer. Georg stava a qualche cella da quella del reverendo
Niemöller, quello di “Prima vennero a prendere gli zingari...”, che poi erano le
parole di un suo sermone, anche se la maggioranza crede sia una poesia di
Bertolt Brecht.
Allora questa dev'essere la cella di Georg Elser. Piccola, esposta a ovest,
piena di luce a quest'ora. Nulla che ricordi l'attentatore della
Bürgerbräukeller, nemmeno una targhetta. Mi aggrappo alle sbarre, fisso
l'interno e sto qui un po', anche se non sento nulla. Voci dal corridoio, dalla
cella del predicatore, mi infastidiscono e spingono a uscire. Faccio un passo,
un rumore proveniente dalla cella mi ferma. Torno con il volto alle sbarre.
Cos'è stato? Nulla, mi pare. Ma la grossa farfalla riprende a sbattere le ali
contro il vetro illuminato dal sole delle cinque. Come una pazza. Non uscirai
mai, quella luce non esiste, smettila ché ti fai male. Non mi dà retta. Credevo
che la porta si sbarre fosse aperta, invece no. Non mi va giù, non ci sto, questa
cazzo di porta deve aprirsi adesso. Che cosa mi possono fare, del resto? Non
potranno tenermi qui come Georg, questa non è più una prigione! Apriti,
bastarda! Oggi no, oggi non si muore. Si visita, perdio! Un altro calcio e sono
nella cella. Forse sono il primo che entra qui dentro a ogni costo. Chiudo le
mani sull'insetto con calma, lo so fare da quando ero bambino. Lascio la
stanzetta con le mani chiuse a scrigno sul petto, sento passi nel corridoio ma
fottetevi pure! Sotto il cielo dopo pochi passi, libero la farfalla nel sole; vola
via come se fosse cosa ovvia e un po' volo anch'io per l'emozione. Mi volto
verso l'uscita del carcere, da dove una comitiva di orientali mi ha visto e mi sta
fotografando. Mondo di merda!