Francesco Rossetti
Tempo libero

Pensava  fosse  ora  di  tagliarsi  i  capelli.  Camminava  da  almeno  un'ora  tra  le 
sontuose  strade  di  Firenze,  in  trasferta  come  un  turista  straniero.  I  pensieri 
scorrazzavano per la sua mente, scrivevano saggi critici, rilasciavano interviste, 
limavano discorsi da fare quando si sarebbe trovato a tu per tu con la persona 
giusta. I piedi per il momento non gli facevano male, benché calzasse scarpe 
di pessima qualità. Ogni tanto si fermava come una spia, attento a non dare 
nell'occhio, nei paraggi di insegne di parrucchieri, annusandone gli interni e 
aguzzando la vista verso il prezzario. Voleva spendere poco.
Sostò davanti a un barbiere che aveva tutta l'aria di essere straniero. Albanese? 
Rumeno? Dentro un ragazzotto con una signora che poteva essere sua madre. 
Forse era lei a tagliare i capelli, mentre il figlio imparava? Il locale era vuoto. 
Passò oltre per valutare con calma se entrare davvero. 
Sfrecciò una macchina con una canzone a volume sostenuto. Si voltò di scatto 
per  vedere  chi  fosse  al  volante,  ma  perse  l'attimo  del  passaggio.  Era  forse 
l'unica  canzone  bella  di  quel  melodico  napoletano.  Alzò  gli  occhi  per 
osservarsi  riflesso  sul  vetro  del  negozio  accanto  al  barbiere.  Solo  un  attimo, 
poi  distolse  lo  sguardo  perché  si  faceva  uno  strano  effetto,  con  la  barba  e  i 
capelli  unti,  sporchi.  Entrò  con  il  sorriso  più  disinvolto  che  potesse  fare.  La 
signora e il ragazzo lo accolsero a braccia aperte. Non aspettavano altro. Un 
incontro  fra  persone  ottimiste,  perché  tutti  la  prima  volta  ci  presentiamo 
positivi.  Ormai  era  fatta.  Si  preparò  al  lavaggio,  la  sua  cute  implorava  un 
massaggio fatto da mani estranee. Era il cliente, doveva godersela un po'.
Mezz'ora  più  tardi  era  di  nuovo  per  la  via,  con  quel  suo  cappotto  addosso. 
Perdeva  bottoni.  Per  questo  lo  teneva  aperto,  svolazzante,  ma  come  può 
sentirsi un cappotto quando si mostra agli altri, con un bottone sì e uno no? 
Si diceva: posso sperare di trovarne di uguali in merceria? Affondò la mano in 
tasca e si trastullò con una manciata di monete. Non era caldo. Si avviò verso 
la  stazione.  Oltre  ad  avere  un  taglio  fresco,  per  quanto  generico,  si  sentiva 
bene: qualche parola l'aveva comunque scambiata, qualche sorriso. Tornava a 
respirare  l'aria  dal  naso,  a  piedi  nel  traffico  tra  i  tubi  di  scarico,  i  polmoni 
insidiati da gas urticanti. Passò un furgone davvero pestifero. Cosa aspettava 
l'Europa a metterli fuori commercio?
In stazione, era tutto un avanti e indietro fra volti, valigie, panchine sudicie. 
Una donna con grandi buste al seguito teneva lo sguardo basso, puntato sui 
binari.  Accanto  a  lei  la  figlia  adolescente  in  bluejeans,  fiera  del  suo 
smartphone. Secondo lui, non erano italiane. Forse albanesi? Rumene? In ogni 
caso, erano pari, con la stessa pelle strattonata da un'aria fredda e inquinata. 
Voleva  tornare  a  casa.  Benché  si  sentisse  precario  con  i  sentimenti,  con  il 
cuore sempre in disordine come una camera da letto piena di vestiti spiegati e 
sparsi,  ci  teneva  a  costruire  qualcosa  a  casa.  Tirò  fuori  l'iPod,  le  cuffiette 
irradiarono  musica  alle  orecchie.  Ma  i  pensieri  erano  resistenti,  non 
mollavano  la  presa.  “Ecco,  lo  vedi”,  si  diceva,  “dovunque  vai  non  conosci 
nessuno. Quante persone conosci davvero?”
La donna alzò gli occhi, gli si avvicinò con le sue buste: "Posso dire, scusa, tu 
hai macchia negli occhi".
Si  agitò  un  po'.  Quali  intenzioni  la  muovevano?  Aveva  qualcosa  negli  occhi? 
"Scusi, cos’ha detto?"
"I tuoi sono poco luce, ma prima aveva luce".
Gli  sembrò  la  voce  della  saggezza,  straniera  ma  amorevole.  Gli  occhi  gli  si 
inumidirono. 
Così  era  in  treno,  ora  sedeva  di  fronte  a  una  gigantesca  donna  africana  dai 
fianchi  grossi,  contadina  coperta  da  un  caffettano  chiaro,  un  cappuccio  che 
nascondeva  i  capelli,  ciabatte  da  ospedale  ai  piedi.  Questa  non  parla  una 
parola  d'italiano,  pensò.  Un  tipo  sul  binario  (forse  il  figlio?)  gliel'aveva 
appioppata  perché  la  facesse  scendere  a  Bologna.  Anche  lui  stentava  a  farsi 
capire. Gli era spuntato alle spalle, con questa donna arrancante. Disperati lo 
avevano puntato; se ne era accorto, avrebbe voluto svicolare poi aveva tolto le 
cuffiette e concesso l'attenzione.
Ora,  seduto,  tra  le  mani  stropicciava  il  programma  tascabile  di  un  festival 
teatrale.  Conteneva  presentazioni  di  spettacoli  talmente  artificiose, 
magniloquenti e incomprensibili da far tenerezza. Sentiva gli occhi pesanti e 
questo  lo  metteva  a  disagio,  come  se  avesse  un  buco  nei  pantaloni.  Era 
interessante  lanciare  un'occhiata  complessiva  al  vagone.  Tanta  gente  sparsa, 
seduta qua e là, chi più composta, chi stravaccata su due sedili. Attraversarono 
agevolmente  le  stazioni  di  Prato  e  poi  quelle  più  piccole  dell'Appennino 
tosco­emiliano,  quindi  il  treno  rallentò  in  modo  incomprensibile,  usando 
un'attenzione fuori misura per inserirsi dentro Bologna.
Durante il viaggio, il suo telefono vibrò almeno un paio di volte, in modalità 
silenziosa. Non rispose. Lasciò vibrare.
Siccome  era  in  anticipo,  non  prese  il  cambio  per  Modena,  piuttosto  voleva 
trascorrere una mezz'ora in una di quelle grandi librerie del centro. Ce n'era 
una  su  tre  piani,  con  un  bar  collegato  e  i  tavoli  per  mangiare  ai  piani 
superiori. A metà via Indipendenza, vide un mucchio di persone in attesa di 
fronte a un palco. Una sorta di teatro all'aperto. 
Una  signora,  anche  lei  con  le  buste  della  spesa,  gli  passò  accanto  e  chiese: 
“che succede?”
“C'è una presentazione”, le disse. “Politica”.
“Che schifo, mi fanno tutti schifo, sono così incazzata!”
A  lui  quale  commento  restava,  se  non  un  finto  sorriso,  abbozzato  e 
liquidatorio? Proseguì.
In libreria prese in mano una graphic novel sul cervello, sul funzionamento 
della mente e fu una lettura semplice e interessante. Per di più, gratuita. Tra 
gli  scaffali  incrociò  un  amico  bolognese.  Pochi  minuti  e  comparvero  anche 
due sue amiche. Andarono a prendere un gelato e quei venti minuti furono 
una  parte  piacevole  e  rilassante  della  giornata.  Vicino  a  loro  una  coppia  di 
adolescenti  si  baciava  con  trasporto,  e  ogni  tanto  lui  lanciava  un'occhiata  a 
questa pratica di intimità da mostrare tranquillamente in pubblico. Purtroppo 
aveva il treno alle 19.54, non poteva perderlo. Comunque, non voleva. Salutò 
e di buon passo mise via Indipendenza sotto i piedi. 
All'arrivo  trovò  la  bici  parcheggiata  ad  accoglierlo.  Sciolse  la  catena  e 
attraversò  il  centro.  Le  strade  erano  un  mortorio,  un  brodino  caldo  rispetto 
alla varietà e al movimento bolognese. Pedalava senza mani sul manubrio, il 
cappotto  sempre  aperto  e  svolazzante,  le  scarpe  consumate  e  senza  lucido 
recente,  la  barba  lunga  e  i  capelli  tagliati,  in  ordine.  Sotto  il  maglioncino 
marrone, una camicia stirata, trattata con cura, che voleva significare che non 
era proprio lasciato a se stesso. Ma i pensieri si divertivano a scorrazzargli in 
testa,  caotici  come  a  un  Luna  Park.  Tutti  progetti  contingenti:  domani 
telefonare  a...,  scrivere  mail  a...,  fare  addominali,  non  tenere  il  muso  a... 
Avrebbe voluto immergere la testa nella vasca calda di una piscina termale. Gli 
arrivò  in  testa  un  assolo  di  Miles  Davis,  sentito  tante  volte,  fortuitamente 
incamerato  nella  sua  riserva  musicale.  Lo  conservò  gelosamente  come  un 
ritmo interno.


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