Barbara Cuoghi
Le ossa del tempo

Si era proprio stufato di andare avanti scandito, tic tac tic tac tic tac,
non ce la faceva più.
Ne aveva abbastanza della pesantezza delle lancette e dei rintocchi
assordanti che volevano inchiodarlo a un campanile di paese, fosse
anche per un soffio.
Voleva fluire infinito, senza metro e senza ruggine. Non aveva padroni,
lui.
Doveva decidersi e affrancarsi da quell’opprimente zavorra quantica, ne
andava della sua sanità mentale e della sua libertà. Prima o poi
qualcuno sarebbe riuscito a misurarlo sempre più precisamente fino a
rinchiuderlo in un femtosecondo di femtosecondo e poi, oltrepassando
i limiti dell’inaudito, sarebbe riuscito a fermarlo.
E allora doveva rendersi inafferrabile, scappare imprendibile, fluido,
inconsistente, silenzioso, e lieve.
Dopo molto rimuginare si risolse a procedere drasticamente una notte
che era in vacanza alle isole Lofoten.
Forse per via di tutto quel verde ossigeno mescolato al blu azoto, o
forse per via dell’accoppiamento magnetico, sentì che doveva disossarsi
lì, al freddo più freddo, durante l’aurora boreale. Sapeva bene che
quest’idea che gli tarlava il cervello era assolutamente fuori da ogni
Ordine Delle Cose, nessuno mai aveva osato una procedura talmente
eterod­ossa.
Ne era consapevole, lui era l’Eternità, non uno sprovveduto.
Le sue ossa erano fatte di vento e guerra, di fotoni e parole, di carne e
clorofilla, di amore e polvere. Erano insieme belle e terribili, eppure lui
le percepiva solo come una condanna, lo ingabbiavano da dentro
costringendolo alla forma e alla regola, alla ponderatezza e alla mania.
Aveva squadernato trattati e tomi e aveva assorbito il contenuto di
incunaboli e papiri.
Alla fine su una cosa non aveva dubbio: andavano maneggiate con la
massima cura, le sue benedette ossa, e la loro estrazione, se proprio era
inevitabile, doveva avvenire con precauzione estrema. Lui non si poteva
permettere di riportare rallentamenti o, meno che mai, danni
permanenti.
Sarebbe stato un disastro universale.
Ma ormai era deciso a disfarsi degli ingranaggi articolanti e della rozza
impalcatura che lo rendeva un burattino ridicolo, misurato e
prevedibile. Doveva tentare il tutto per tutto.
Sovvertendo le regole di precedenza che aveva memorizzato, si fidò del
cielo verde e del suo istinto e s’impose di cominciare la
descheletrizzazione dallo sfenoide, il piedistallo che tutto regge nel
centro di ciò che si è.
Lo individuò con gli occhi che guardavano dentro e con il respiro
mozzo per il terrore di sbagliare. Quando lo ebbe tra pollice e indice fu
ben attento a sfilare pianissimo la sella turcica per non strapparsi via
l’ipofisi, ma gli tremava la mano e ci mise un sacco di sé per fare
scivolare l’osso leggermente di lato. Poi, madido di sudore per lo sforzo
di concentrazione, afferrò più saldamente lo sfenoide e lo fece uscire
dai numeri 18061815 che portava impressi sulla superficie del cuoio
capelluto, a memento indelebile di Waterloo dove altre selle si diedero
battaglia.
Ecco!
Stramazzò di colpo sui ghiacci norvegesi.
Era distrutto, ma enormemente sollevato e anche stupito di essere
riuscito nell’impresa.
Sorrideva tra l’ebete e il soddisfatto e si sentiva già meno sferragliante,
meno schiavo.
Si prese il suo se stesso per riposare e cercare un’altra volta la
concentrazione necessaria nella notte.
Nel silenzio gelido di nuovo si guardò dentro e con cautela passò a
disincernierare l’osso frontale, ma dovette lavorarci molto e con
delicatezza, perché esso fu progettato a chiusura ermetica, come una
ventosa potente che sposa le parietali a guardia del pensiero. Anche
una volta liberato dalle articolazioni immobili, il frontale non ne voleva
sapere di staccarsi dal neurocranio e dalle meningi, finché, ad un tratto,
l’osso non gli rimase in mano improvvisamente, cedendo d’un colpo
con un toc sordo, come il rumore che fa il coperchio di una pentola a
pressione quando si apre.
Il cuore gli batté all’impazzata. Frenò il giubilo, si dominò.
Sebbene il 25111915 non fosse sulla superficie immediatamente
soprastante, s’intestardì a voler fare uscire il frontale proprio da lì, a
celebrazione di chi lo aveva reso relativo facendo la linguaccia al
mondo.
Per via di questa finezza operativa si stancò così tanto che, alla fine,
decise di concedersi scampoli di sé e un boccale di birra per distendersi
i nervi.
Quando fu di nuovo pronto, con la mente sgombra e la mano ferma,
cercò con lo sguardo interno verso la base del cranio e procedette a
disarticolare, con un simultaneo scatto delle rocche petrose, entrambe
le ossa temporali.
Anche questa volta impiegò molto sé poi, finalmente, estrasse il
temporale d’Occidente dalla piccola fessura del 476, e fu una vera
faticaccia, mentre fece uscire quello d’Oriente dal 29051453,
sforzandosi, in vero, molto meno.
Per un’infinitesimale frazione di sé fu preso dal panico per la paura di
essersi danneggiato la coclea e i canali semicircolari, roba da rimanere
sordi e squilibrati, ma poi si padroneggiò e verificò che i suoi sensi,
fortunatamente, erano rimasti integri.
Festeggiò lungo un fiordo, in compagnia di due troll e di un piatto di
baccalà.
Rimasto solo, gli bastò chiudere gli occhi e pensare intensamente alle
sue gambe. Con una naturalezza di cui si stupì egli stesso, riuscì a far
sgusciare fuori in rapida sequenza femore, rotula, tibia e perone della
gamba sinistra dalla cicatrice del 04081936. “Un me da record
olimpico!” ridacchiò pensando alle lunghissime gambe nere da cui si
era fatto vincere tre volte per far dispetto al male in persona proprio a
Berlino e, galvanizzato dal successo dell’operazione ortopedica, andò
avanti senza più perdere un attimo di sé.
Ormai la tecnica era collaudata e la mano molto ferma. Lavorava
addirittura a occhi chiusi in tutte le direzioni, senza guardare né dentro
né fuori. Si ascoltava e si vedeva.
Fuori le costole dal 07101571.
Via ileo ischio e pube dal 14071789.
Sciò alle scapole e alle clavicole dal 12101492.
Adios a tutta la spina dorsale, da C1 a L5, sacro e coccige compresi,
attraverso il 01011948.
Andò avanti così chissà per quanto, in un crescendo di perizia euforica,
fino a quando il verde dell’aurora svanì nella ionosfera e lui coronò il
suo sogno di sempiterno invertebrato, leggero e libero, certo della sua
inarrestabile infinitezza.
Noi continuiamo ad avere bisogno di un prima e di un dopo per
esistere, e di dividerlo per concepirlo, ma da allora non c’è strumento
che lo contenga, non ci sono trappole per fermarlo.
Il Tempo vola.


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