Lamberto Dolce
Inquietudini di un’ombra

...inizio presenza fine; poi sempre un eterno presente. In
quell’atomico istante, cinquantotto minuti prima del mezzogiorno, il
cielo caldo di Nagasaki si smembra in bollente poltiglia. Il lampo rende
cieco, come tre giorni prima a Hiroshima, chi guardava credendo che
continuasse l’azzurro: quell’ultimo sguardo apparteneva a chi stava
lontano; quelli che il caso aveva posto a un km dall’ipocentro, in
quell’istante, non hanno lasciato né ossa né ceneri.
Il calore correva veloce con la luce: trentacinque gradi, poi mille, poi
duemila, poi tremila, poi cinquemila... una scheggia di terra che in
meno di due attimi di secondo è un sole. Gli atomi degli uomini
venivano frullati insieme a quelli di animali, piante, case, sassi e tutto il
resto. La più grande cremazione mai vista a sud del Sol Levante era
compiuta in quei due caldi giorni di agosto.
Poi l’atmosfera radioattiva sporca fiumi e gole, sino a farli seccare e
soffocare.
I sopravvissuti dall’esplosione, appena ripresisi, aprono la porta di
casa: appare loro lo scheletro affumicato di un altro mondo. Restano
paralizzati dal terrore, sino a convincersi che sono più morti di chi lo è
realmente in quel fumo radioattivo.
Gli ultimi morti del vecchio mondo non lasciano nemmeno le ossa: una
nuova era, inconcepibile, s’impone su tutti i viventi e distrugge ancora,
come sta scritto nella Legge: sempre la stessa scritta da uomini che
hanno rubato il fuoco degli dei.
Non un ricordo tangibile se non un’ombra poteva restare in
quell’eterno presente, marchiato nelle due date: sei e nove agosto
millenovecentoquarantacinque.
Il suo corpo si era dissipato così, come quello di altri trecentomila.
Rimaneva la sua ombra, orrore paralizzato sui gradini.
Stanco il corpo si era seduto. Ancora uno sguardo al cielo dove la luce
di agosto gli faceva stringere gli occhi. Perché era stanco? Per la guerra?
L’età? La fame? O forse guardava il cielo perché gli ricordava i nonni
pescatori. Quando c’era scarsità di pesce oltre a pescare
accompagnavano le ceneri mortali nell’ultimo viaggio: gli abitanti del
villaggio davano a loro un po’ delle ceneri dei propri cari da portare in
barca oltre alle reti e all’aquilone. Giunti in mezzo al mare, così lontano
da non essere visti da chi stava sulla sabbia, lasciavano volare l’aquilone
con le ceneri. I nonni facevano questo senza aver conosciuto la storia
degli angeli, che lui invece aveva imparato a scuola. Quando faceva il
bravo i nonni lo imbarcavano assieme a loro. Il rito era svolto all’alba
mentre il sole cresceva e a lui piaceva immaginare che quel pugno di
ceneri, che solo ieri erano scheletro, corpo, pelle di una persona, in
quel momento si smarriva tra le nubi o le stelle lontane, dove scendeva
la vita. Allora spesso stringeva lo sguardo accecato dal sole così come
quel suo ultimo giorno. Stringeva sempre più gli occhi quasi a chiuderli
e non vedeva più gli aquiloni, custodi di ciò che era rimasto e di chi
non era più.
Mentre dalla fessura degli occhi vede un’unica striscia celeste, le
lancette del suo orologio hanno da poco scavalcato le undici di quel
giorno orrendo. Allarga appena un po’ lo sguardo mentre sente il
calore dei gradini su cui è seduto e pensa sia ora di rialzarsi. Un
istante... Non ha il tempo di capire se sia un rombo, un tuono, un
frastuono che strappa improvvisamente l’aria. Scompare il mondo in
un’ardente vampa che lascia la sua ombra per sempre lì sui gradini, già
rovine, di quella che era una banca di Nagasaki. Niente ossa, le ceneri
anch’esse sfiorite, sempre più mescolate con altri atomi di tutte le cose
arse. Niente aquiloni, il cielo è pesante come pece. Rimane di
quell’attimo, sul suolo esploso, l’ombra dei morti e delle loro cose.
Rimane la sua ombra, testimonianza mortale, impossibilitata a fuggire
nell’aria e nel tempo.
Remota come la luce anche l’ombra smuove lo spazio tempo: ombre di
uomini, orme di fugace esistenza, ombre di soli, lune e pianeti. Ombre
di galassie: tutto ha la lunghezza dell’universo o dei tanti multiversi
dalle forme ignote. Antitesi della massa, negazione della pelle e dello
scheletro, altro volto della luce, l’ombra esiste priva di struttura: gas,
molecole, sassi, ossa, carbonio solido, liquido o gassoso...
La vampa di quei due giorni ha sintetizzato tutto.
Pochi lasciarono di sé la propria ombra. Molti nemmeno quella.
Alle ombre di Hiroshima e Nagasaki non rimase che rovistare tra le ossa
del tempo e ricordare i pensieri che scappano e vengono sempre più
caotici, senza la leggerezza dell’aquilone.

...sangue. Identità. D.N.A. Tu. Io. Cosa importa se donna, uomo, dissociato,
grumo caotico, particella indefinibile. Sono specchio nero di tutto questo.
Mi perdo tra le vene di una foglia di quercia o di betulla che oscilla al vento
del mondo un minuto prima dell’olocene: la preda uomo sbrana fino al
midollo carne uccisa dalla sua fame. È giunta da un rifugio precario,
continua a seguire orme, stagioni e maturazioni; fugge minacciose prede o
glaciali estinzioni. Di me, la sua ombra, immagina sia il suo sogno che
riposa. Cerca acqua e ristoro, è un uomo confuso e sente che non c’è nessun
riguardo verso di lui. Ancora mi ricorda mentre fa i primi segni dentro
grotte buie. Quanto dava importanza alla mia visione nel sonno. La
fiamma illumina la parete; lui mi vede più nera e si sdraia con la speranza
che lo segua nel sogno. Mi costringe a subire i suoi terrori, le sue ferite e le
più umilianti frustrazioni: il panico di qualunque domani gela le sue ossa.
Invidio ben altre ombre di corpi senz’ossa, perché rispondono alla legge per
cui tutti siamo mutanti per caso: ombre di stelle, di pianeti, di galassie.
Lui, la mia massa vitale, dissipata nel niente di un momento, cos’era nel
panorama dell’universo? La sua immaginazione è arrivata dove io transito
ora? O la sua velocità è frenata e scomparsa per sempre in un limbo senza
leggi, orfana come me di E=mc2 : non viva, non morta.
Di me l’antropologo non cerca lo scheletro ma il significato di una traccia.
Nel tempo incutevo orrore, ora ne sono incollata qui in eterno. L’orrore che
credevo di causare sin dai primi fuochi nelle gelide grotte del pleistocene, è
identificato nella mia statica figura. Mi osservano ancora, perché? In me
non esiste niente ora; vorrei non solo sfuggirvi, ma anche dimenticarvi.
Vorrei incenerirvi, dalla pelle alle ossa e seppellirvi dove il ricordo non vi
considera più cosa sua, poiché sono condannata a restare oltre gli scheletri
delle ere future. Esisto, più che indifferente, nell’assenza di tutto. Ormai
sono un’eterna domanda, le certezze nascono e si seppelliscono in me. In
quei due soli giorni si è compiuta la cremazione dell’olocene.
Il tempo si è perso e la corsa della sua freccia è naufragata in un caotico
gorgo senza fine.
Rimango io, ombra inquieta del presente atomico, del futuro
inimmaginabile... Rimango?
A cosa pensava il mio corpo su quei caldi gradini della banca? Al futuro più
lontano o ai passati più remoti, al giorno prima o alle stagioni inesistenti?
Pensava sino all’ultimo secondo come se fosse stato eterno, anche se svanire
da un istante all’altro è l’unica verità.


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