Giuliana Fornaciari
Littorina

Accettai una supplenza nella scuola media del Comune di Canossa. Non avevo
l'automobile e ci potevo andare solo con la littorina. Si chiamavano ancora
così quei quattro vagoni sulla linea Reggio­Ciano. E siccome ci tenevo a
segnarmi tutte le parole del Ventennio che fluttuavano impunite nel
linguaggio di tutti i giorni, pigliai al volo la parola littorina e la infilai nel
taschino interno della mia memoria. Era un trenino che attraversava una parte
di pianura e una collina mai viste prima; campi coltivati, ruderi, strade
bianche, vegetazione scarmigliata in riva ai canali. Funzionava così: siccome
quel treno lì, cioè la littorina, era un mezzo di trasporto che non poteva
parcheggiare da nessuna parte lungo il tragitto, se non quando arrivava in
stazione, a nessun concittadino con velleità edilizie era mai venuta voglia di
costruire qualcosa lungo i binari della littorina. Per tutto il viaggio incrociavo
poca modernità. Le insegne, i centri commerciali, i capannoni, i distributori di
benzina, le bifamiliari con i nani in giardino, stavano tutti altrove, più in là,
decisamente più in là. C'era della gran bella quiete che sorrideva via dai
finestrini. E io ero contenta e sorpresa. Molto sorpresa.
Sul treno c'era, se ben ricordo, sempre lo stesso macchinista, o
comunque io, per i miei orari da insegnante delle medie, incontravo sempre
lo stesso macchinista.
Mi figuravo che un macchinista, che percorre la tratta Reggio­Ciano
tutti i santi giorni, si annoiasse a morte perché a un tizio così non gli può
succedere mai nulla, vede sempre gli stessi studenti con la cartellina in
polionda alveolare trasparente, con dei fogli Fabriano dentro. Li fa salire, li fa
scendere, fischia. Si attiene a dei protocolli, compila dei verbali, che poi non
leggerà mai nessuno, però non si sa mai, allora li compila lo stesso.
E invece quel macchinista li, aveva l'atteggiamento di chi solca dei mari
lontani, sfidando delle sirene nude sugli scogli. Metteva a fuoco l'orizzonte,
guardava lontano, teneva la sigaretta pronta per le soste più lunghe. Faceva
dei gesti lenti con dei tatuaggi sulle braccia. Non sembrava affatto annoiato.
Dava da intendere che avesse delle vicende avventurose. Si lisciava la divisa e
si vedeva che ci teneva parecchio. Può essere che avesse delle amanti. Può
essere che avesse un'amante a Codemondo, e magari che ne avesse una a
Cavriago, una al Bivio per Barco e un'altra proprio a Barco, e poi ancora forse
aveva un'altra amante a San Polo. E infine un'amante a Ciano, al capolinea. Se
le cose stavano così, la più bella allora era quella di San Polo tra tutte le
amanti, me lo sentivo che era così. Ma il fatto che le amanti potessero essere
ignare l'una delle altre, rendeva la vicenda claustrofobica, perché significava
che le amanti non uscivano mai dai confini della loro località. Significava che
l'amante di Barco non si allontanava mai da Barco. E quella di Codemondo
restava sempre a Codemondo ad aspettarlo alla stazione. Può darsi invece che
fossero tutte quante di Parigi, dove sorseggiavano dei Pastis, ma poi
tornavano sempre lungo la tratta Reggio­Ciano perché gli volevano bene a
quel macchinista lì. Meglio, molto meglio così.
Scrissi una lettera al Preside dicendo che la littorina arrivava in stazione
alle 8,00 del mattino e mi era impossibile entrare in classe puntuale, per
quanto corressi veloce. Nella lettera al Preside usai la parola littorina, e la
scrissi in un italiano desueto, con delle formule ossequiose e il tutto vergato a
mano con degli svolazzi scemi.
“Egregio signor preside... vengo a farle conoscere... acciocchè ...
sferragliante orgoglio della tecnica.... ligia al dovere....gentile licenza... resto in
fiduciosa attesa...”
La parola littorina non lascia nessuno indifferente, salta all'occhio e
all'orecchio. Con quali conseguenze non lo sapevo, rischiavo che il preside si
sentisse preso per i fondelli, o mi scambiasse per una nostalgica. Ma ai tempi
ero incline alla supercazzola solitaria e malinconica. Un imperativo morale mi
imponeva di spettinare il quotidiano, con un travaso netto di minchiatedentro alla realtà, così... per vedere l'effetto che faceva.

Quella era una ottima occasione per fare un oltraggetto istituzionale di quelli che forse non avrebbe
capito nessuno e nessuno ci avrebbe riso sopra. Così lasciai la lettera sulla
scrivania della presidenza pensando che, the day after, mi sarebbe toccato di
andare penitente sotto la rupe di Canossa.
Il signor Preside, un galantuomo, stette al gioco, emanò un editto
telegrafico, rispondendomi con il medesimo tono, forse pigliandomi per i
fondelli, che sì: avevo il permesso. Mi fece molto piacere.
In seguito assegnai un compito in classe dove i ragazzini dovevano
disegnare in assonometria isometrica la littorina e un vagone. Diedi dei gran
bei voti.
Il buco spazio temporale con dentro un treno del ventennio, una
campagna e una prima collina quasi intonse, un macchinista marinaio, e degli
studenti di littorine, mi inghiottì per due mesi. Non ho più viaggiato su quel
treno e ho il sospetto che non sia mai esistito.


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