W.H.
Una degna sepoltura

Sölden, 19.9.2017

Molto onorata redazione di “Chi l’ha visto?”,
una conoscente mi ha detto che la trasmissione italiana risolve anche
vecchi e dimenticati casi di scomparsa. Tra pochi giorni diventerò
nonna per la seconda volta, ma la nascita di questo nipote, purtroppo,
mi fa riflettere con maggiore insistenza sul triste destino di mio padre.
Lui avrebbe diritto a una degna sepoltura e i miei nipoti avrebbero il
diritto di poter andare a trovarlo al cimitero.
Mio padre, Sepp Hofer, apprezzato messo comunale, ebbe una vita
difficile: era nato nel 1930 a Plaus, vicino a Merano e, come altri
optanti, nel 1940 si era trasferito con la famiglia nel Tirolo
settentrionale. Era un bambino molto basso per la sua età e per questo
era spesso oggetto di scherno da parte dei suoi coetanei (anche da
adulto soffriva per il complesso di essere un uomo minuto). Inoltre, da
ragazzino, aveva dovuto assistere alla tragica morte di due dei suoi
fratelli per lo scoppio accidentale di un ordigno e gli rimase sempre
una specie di senso di colpa per essere sopravvissuto. Quell’incidente
gli aveva lasciato una piccola scheggia conficcata in una spalla, che però
non gli aveva impedito un uso quasi normale del braccio.
La montagna era il suo passatempo e la sua passione. Collezionava
cime sul confine e segnava su un taccuino tutti i rifugi in cui era stato.
Tornava volentieri sulle vette che uniscono l’Austria e l’Italia perché lì,
diceva, non c’erano stupide differenze tra il nord e il sud: “Tirolo è
Tirolo” ripeteva sempre. Era un uomo all’antica e non si è mai definito
“austriaco” ma “tirolese”, e non aveva mai accettato l’idea che i suoi
genitori avessero dovuto abbandonare la casa di famiglia. In realtà,
anche se non nella stessa casa, avrebbero potuto tornare ad abitare in
Sudtirolo nel ’49 ma, un po’ per l’incidente e un po’ per gli italiani,
rimasero tutti qui.
La nostra vita è stata dunque ordinaria e mediamente serena fino al 23
settembre 1976.
L’ultimo ricordo che ho di mio padre è della sera prima, a cena. La
mattina del 23 aveva fatto colazione molto presto con mia madre ed era
partito per una delle sue escursioni, mentre mia sorella e io dormivamo
ancora.
Tutto normale fino a sera. Alle otto, però, non vedendolo rincasare, mia
madre allertò i soccorsi. Le ricerche cominciarono il giorno dopo.
Doveva essere per forza su uno dei sentieri nei dintorni.
Il 24 notte nevicò sopra i 2.000 metri e, dopo quattro giorni di
perlustrazioni in lungo e in largo, un gendarme nostro conoscente
venne a casa a comunicarci che non potevano fare più niente.
Da quel giorno il nostro mondo fu devastato dal dubbio usurpante e
continuo della sua scomparsa. Mia sorella, invece di proseguire gli
studi, trovò presto un lavoro e si trasferì a San Gallo, mia madre
passava la maggior parte del suo tempo affacciata alla finestra.
Ricordo ancora l’esatto momento di ventisei anni fa, quando sentii alla
radio la notizia del ritrovamento di un cadavere tra la neve, in
prossimità del Tisenjoch: ero in auto e stavo andando a prendere mio
figlio a scuola. Dovetti accostare e proseguire a piedi perché mi
tremavano troppo le mani.
Andai alla polizia, mi dissero che dovevano fare delle indagini. Per mesi
tornai e ritornai a chiedere quando ci avrebbero consegnato quei
poveri resti.
Inutili furono i miei appelli a radio e giornali locali, mi rivolsi a un
avvocato, scrissi allo Spiegel, ma le mie richieste rimanevano inascoltate
ovunque...
L’anno dopo mio marito se ne andò e intraprese un’azione legale
perché mi fosse tolto mio figlio. Mia sorella non si faceva sentire, mia
madre si ammalò e morì nel giro di poco tempo.
Per anni mi sentii sola e abbandonata, poi, finalmente, seppure per
poco tempo, ebbi il conforto di rivederlo.
Anche se trasfigurato, riconobbi in quel volto scarno l’aspetto
rassicurante di un tempo. Tornavo a trovarlo tutte le volte che potevo,
gli parlavo attraverso quello stupido finestrino, gli promettevo che
presto o tardi avrebbe riposato insieme a sua moglie, ai suoi fratelli e ai
suoi genitori, sotto alla croce di ferro battuto nel nostro cimitero, come
sarebbe piaciuto a lui. Naturalmente mi infastidivano molto gli sguardi
morbosi di tutti quei curiosi... Finché non mi proibirono l’ingresso:
mandarono addirittura due carabinieri a intimidirmi! Allora non potei
più sopportare quell’ingiustizia e presidiai l’ingresso con tanto di
documenti e di cifre che testimoniavano che quella era la più
vergognosa e colossale operazione commerciale fatta sulle spalle di una
famiglia addolorata e a danno di una povera salma! La Provincia di
Bolzano aveva speso 8.000.000 di euro per mettere insieme quel
fenomeno da circo!
Ditemi voi se dopo cinquemila anni si potrebbe mai ritrovare un
cappello di pelliccia d’orso intatto! Un contenitore di betulla quasi
intero! Ma per favore!
Hanno inscenato “la più grande scoperta archeologica”!
La Provincia di Bolzano ha pagato 175.000 euro ai coniugi Simon, i due
escursionisti che hanno scoperto il cadavere di mio padre sul Similaun,
ufficialmente come ricompensa per il ritrovamento, ma è chiaro: non è
altro che una tangente per fargli tacere che non esisteva e non esiste
alcun “corredo della mummia”!
Tredici anni fa Helmut Simon è misteriosamente scomparso ed è stato
trovato morto in montagna otto giorni dopo... Un caso? O era sul
punto di rivelare verità scomode?
Se non vi basta tutto questo, considerate i 250.000 visitatori all’anno,
gli alberghi che li ospitano, l’oggettistica con quello stupido marchio di
“Ötzi”: quel povero corpo esposto a milioni di occhi indiscreti è il
biglietto vincente della più vergognosa lotteria truccata della storia
dell’uomo!
Mi appello a voi perché non ho più fiducia nelle istituzioni austriache,
e ancora meno in quelle italiane, spero che almeno voi di “Chi l’ha
visto?” possiate mettere ordine alla verità e possiate restituire un degno
riposo e donare giustizia a chi li merita.
Prego inviare risposta al traduttore: salvatore.mittermeier@qmail.at

Molto amichevolmente,
Waltraud Hofer


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